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27/08/12

Diario dei Mostrincubi - Il Nenosazme, prima parte


Sono seduta affianco a uno dei due ruscelli che scendono dalla scogliera. Hanno vita breve, finiscono subito in mare ma mi piace il rumore che fanno scorrendo sull'acciottolio di piccole pietre levigate. Penso di essere l'unica a cui piace questo posto. Adoro il rumore dell'acqua che scorre. Mi rilassa prima di una battuta di caccia. La ferita sulla mano è quasi guarita e posso stringere e scagliare l'arpione con forza. So che ormai ci siamo. L'autunno è alle porte e il mio nuovo "amico" non aspetterà ancora. Mi segue da settimane, furtivo, minaccioso, pieno di rancore. Sta per colpire e lo farà appena gli si presenterà l'occasione. E stanotte sarà la notte ideale per far scattare la trappola.

Ho provato ad avvicinarlo più volte ma non sono mai riuscita a stringerlo in un angolo. Scotch, o la cosa che ne ha preso il posto, è definitivamente sparito. Probabilmente, rompendo il vetro della finestra quella volta che ha tentato di soggiogarmi, l'ho costretto a fuggire per non rivelare ciò che realmente è. La locandiera, però, si è ammalata nel giro di poche ore. La sua mente non riesce a riprendersi. Continua a vedere il suo cane anche se se n'è andato da tempo.
Perché la povera bestia è morta da quella notte in cui l'ho trovata rigida e fredda. Le successive manifestazioni non erano realmente Scotch, ne sono sicura, e l'incubo che ne ha preso il posto è forse una delle cose più pericolose che abbia mai affrontato. Non sono preoccupata per la vecchia. È talmente una zucca vuota che probabilmente, quando si riprenderà, sarà convinta di aver avuto solo una brutta febbre. E troverà il modo di incolpare me anche per questo. Se solo sapesse quanto è stata fortunata la notte in cui è morto il suo cane... Ma lo ammetto. La vecchia non mi preoccupa.

Sono preoccupata per me.

Ho ricostruito i fatti. La tarcoblaticofa non era l'unico mostro in giro la notte che ho trovato Scotch morto stecchito. Avevo pensato che fosse molto affamata e che fosse stata lei ad uccidere il cane. In realtà, stava scappando. Scappando da qualcosa molto più affamato di lei. È colpa di questo nuovo arrivato se gli incubi sono stati particolarmente aggressivi per tutta l'estate. Ha scombussolato l'ecosistema e mi ha fatto dannare.

Mi alzo e mi allontano dal gorgogliare del ruscello. Cala la sera ed è ora di fare da esca. Le stradine del villaggio si svuotano. I rumori della cena piano piano si spengono. Continuo a camminare per i vicoli. Appoggio piano l'arpione a terra ma l'asta di metallo risuona comunque ad ogni colpo sul piancito. Le luci si spengono dietro le imposte socchiuse. La gente si addormenta. Gl incubi si muovono furtivi. L'ecosistema del sonno si dispiega in tutta la sua fantasiosa diversità. Incubi si agitano sugli angoli dei tetti. Pensieri si raggruppano in branchi scintillanti sotto la luce della luna. Mi sfiorano le gambe e fanno il solletico. È uno spettacolo bellissimo, riservato a pochi fortunati.

A volte mi dispiace per la gente che dorme e non sa. La gente che non si accorge di tanta bellezza. Le persone si trascinano evitando di farsi domande. Si trascinano e si accontentano. È triste ma le capisco. Farsi domande può farti molto male. Le idee non sono mai neutre. Sono cattive, aggressive, Lottano per il territorio. Prendono possesso delle nostre menti e ci guidano durante la giornata. Mai lasciare campo libero ad un'idea senza prima averla affrontata. Potrebbe spezzarti. O usarti. Ma per molti è fatica inutile. Forse non vogliono o forse non possono, fatto sta che non ragionano da soli e dormono sognando i sogni-escrementi dei parassiti delle loro anime.

Il panorama delle emozioni è cangiante e chiede grandi sacrifici per essere apprezzato. La sua bellezza mi commuove sempre un po'. Tutti i pensieri, tutti i brutti ricordi, tutti i rimpianti, tutte le speranze... È bellissimo ma stasera non me lo posso godere. Continuo a camminare e mi aspetto di vederlo spuntare in ogni momento dall'angolo più buio, dal tetto più alto. L'attesa è snervante. È una caccia difficile e l'unica soluzione per intrappolarlo che mi è venuta in testa è provocarlo. Sono qui, maledetto incubo.

Vieni a prendermi.


20/08/12

Diario dei Mostrincubi - Lo Sficaramamaggio



L'estate scivola via e le giornate si accorciano. Le notti diventano più lunghe e gli incubi si preparano all'autunno. Diventano più aggressivi, più affamati. Le paure del crepuscolo gli mettono più fame e i brutti pensieri sono lì, in agguato, e ti trascinano giù.


Di solito, in queste giornate, spalanco le finestre e mi godo gli ultimi raggi di sole. Mi piace vederlo sparire piano piano, mi piace vedere il colore del cielo che cambia. È uno dei pochi momenti di pace prima della mia solita passeggiata notturna. Appena si fa scuro accendo una candela, una di quelle piccole, e la metto sul davanzale.
Esco e la piccola fiamma continua a brillare finché non finisce lo stoppino. Ne accendo una sola, non troppo grande. E non guardo mai la fiamma che danza al comando di venti inesistenti. Non è una cosa romantica, quella candela.
È una trappola.


Il tutto risale a quando ero una bambina. Adoravo le candele. Ne accendevo il più possibile e costringevo mio padre a passare tutta la sera al lume di decine di piccole fiammelle. Come non mi abbia rifilato un paio di sculacciate non lo so. E non so neanche come ho fatto a non dare fuoco alla casa vista leggerezza con cui armeggiavo tra cera e stoppini. E poi adoravo il rumore e l'odore che facevano i fiammiferi quando li sfregavo contro una superficie ruvida. Ne usavo uno per candela e appena avevo acceso la fiamma, lo spegnevo agitando fortissimo tutto il braccio. Spesso non mi ritrovavo più il fiammifero tra le dita tanta era la foga di spegnerlo. Tra tutte le candele, a cui avevo dato i nomi improponibili che può dare una bambina e che non ripeterò su queste pagine anche se nessuno le leggerà mai ma la prudenza non è mai troppa, ce n'era una che era la mia preferita.
Era piccola e tonda. Profumava di qualcosa che doveva assomigliare alla ciliegia ma che era più simile a una prugna troppo matura. E non si consumava mai.


Non mi ero mai posta il problema. Ero troppo piccola forse per notarlo. Tutte le candele in casa si scioglievano lentamente. Lei no. Lei restava sempre uguale. Potevo passare le ore ad osservare la sua fiamma che quasi non si muoveva. Tutte le sue sorelle si piegavano ai capricci dei refoli di una casa tutta spifferi. Lei no. Brillava sempre uguale. Con piccoli movimenti circolari. Aveva la base della fiamma blu, di un blu intenso, che nessun'altra aveva. E i suoi colori mutavano con le ore. La fiamma era gialla, verde, viola. Ero troppo piccola anche solo per sospettare che ci fosse qualcosa che non andava.


Col passare del tempo, però, quella candela divenne un'ossessione. La portai in camera da letto e la accendevo di nascosto, lontano da mio padre, e passavo le ore ad osservarla. La sua fiamma, i suoi colori, quel modo tutto suo di ondeggiare... era come se fosse voluto, come se la fiamma fosse viva.
Non lo era.
Ma era qualcosa che ci viveva dentro.


Ho ricordi confusi di quel periodo. Ero sempre stanca, passavo le notti sveglia ad osservare la fiamma della candela. A volte, riuscivo a scorgere qualcosa alla base. Sembrava una specie di cimice ma aveva degli aculei sul dorso. O sembravano aculei. Cambiavano di colore e la fiamma cambiava con essi.


Cominciai a stare male sempre più spesso. Raffreddore, febbre alta, mal di gola, tosse. Poi smisi di mangiare. Ogni volta che provavo a mandare giù qualcosa di più sostanzioso di una tazza di tè finivo per vomitarmi l'anima. Mio padre era preoccupato, scrutava la stanza alla ricerca di qualcosa che solo anni dopo avrei imparato a cacciare. Il dottore poteva fare ben poco, passava ogni settimana durante il suo giro dei villaggi della costa e mi trovava sempre peggio. Non riusciva proprio a capire cosa avessi.
Perché il problema era la candela e il piccolo, misero incubo che viveva nella sua fiamma. Mi rubava il sonno, mi rubava il riposo e mi faceva stare male.


Non so quando l'ho capito. Non mi ricordo neanche come lo capii. Mi ricordo solo che passai le notti successivi lacerata a metà. Una parte di me voleva solo perdersi davanti alla luce cangiante. L'altra sapeva. Sapeva cosa stava succedendo. Non era neanche un pensiero. Era più un istinto. L'istinto di allungare la mano e di schiacciare tra pollice e indice la fiamma e il piccolo incubo.


Ci ho messo cinque notti. Cinque notti insonni. Allungavo la mano, mi bruciavo le dita. A volte ero convintissima di esserci riuscita.
Ma la ritrovavo sempre accesa.
Alla fine, con gli occhi rossi e le dita annerite, piangendo senza riuscire a distogliere lo sguardo, l'ho fatto. Ho stretto le dita con talmente forza che ho strappato via lo stoppino dalla cera. Ho spento la luce.
E finalmente, ho dormito per tredici ore di fila.


Il mattino dopo avevo le vesciche sui polpastrelli e la candela era ormai inservibile. Avevo smesso con la mania delle candele.
Non ho mai saputo come si chiamasse quell'incubo. Io lo chiamo sficaramamaggio ma è un nome inventato.
Non ho mai più incontrato niente del genere ma ancora oggi cerco di catturarne un esemplare. La candela è la mia trappola.
Ma evito sempre di fissare troppo a lungo la fiamma.


06/08/12

Diario dei Mostrincubi - L'Ararodecnisa


Il caldo di questa estate si alterna a scrosci di pioggia torrenziali. Le strade mutano in torrenti stagionali e la furia delle acque si precipita verso il mare. Nessuno esce con un tempo così e il paese diventa improvvisamente tutto mio.


Adoro questo tempo. Cammino con l'acqua alle caviglie, l'incerata sopra la testa e uso l'arpione come bastone mentre vedo le luci filtrare dalle persiane sbarrate e sento rumori di piatti e stoviglie che timidamente provano a contrastare il frastuono della pioggia. Persino gli incubi se ne rimangono nelle loro tane o nei loro sottotetti in serate così. È rilassante andarsene in giro con i piedi zuppi senza doversi preoccupare di niente. Cammino per le vie, sbirciando involontariamente la vita che prosegue al riparo dietro le finestre sprangate. Mi tiro il cappuccio dell'incerata sul viso e passo rapida sotto i fiotti potenti delle grondaie. Gioco come da bambina. Sorrido. E per fortuna nessuno mi vede. Ho una reputazione da difendere.
Poi il sorriso mi scivola via dal viso e stringo più forte l'arpione e mi avvicino ad una finestra spalancata. La pioggia fradicia le sedie e il tavolo di una cucina. Le persiane sono aperte verso l'esterno, le ante spalancate verso l'interno. La prima cosa a cui penso è a un colpo di vento. Uno forte. Una specie di piccolo uragano che ha spalancato tutto.


Ma non è possibile. Sul pavimento c'è un lago, il tavolo ormai gronda acqua e le sedie di paglia sono zuppe. La finestra era aperta quando è iniziato il temporale. Faccio un giro di casa. È tutto sbarrato. Possibile che non ci sia nessuno?
Busso alla porta. Il vento si porta via i miei colpi. Lo faccio più forte. Nessuna risposta. C'è qualcosa che non mi quadra. Nessun pescatore uscirebbe con questo tempo e da quello che so in quella casa ci vive una coppia sposata. Che anche la moglie sia fuori? Torno davanti alla finestra spalancata. So che non dovrei ma c'è qualcosa che non mi torna. E di solito non mi sbaglio mai.


Scavalco ed entro.
I piedi nudi fanno piccoli splash sul pavimento bagnato. Non c'è un solo rumore che non sia la pioggia. Chiudo la finestra dietro di me e lo scrosciare diventa improvvisamente un brontolio. Il silenzio in casa è totale. Provo a camminare. Piccole onde partono dai miei piedi e si infrangono sulla porta chiusa. Appoggio l'orecchio e rimango in ascolto. C'è come un russare. Ma a intervalli irregolari. Affannato. Socchiudo la porta e scivolo nell'altra stanza. Il pavimento è uno stagno. Cammino, facendo attenzione a non fare rumore. Il russare è più nitido, meno impastato col rumore della pioggia là fuori. E ci sono dei gemiti.


Si sentono a malapena, confusi con i rumori del temporale. Ma ci sono. Come se qualcuno cercasse di respirare ma ormai fosse allo stremo.
"C'è nessuno?" domando.
La mia voce si perde e resta solo il picchiettare dell'acqua che cade dal tavolo sul pavimento allagato. Mi avvicino alla porta da dove sento arrivare i lamenti. La apro con la punta dell'arpione. La stanza puzza di chiuso. Il pavimento è umido ma non è allagato. Ci sono due persone sul letto. Nel chiarore che proviene dalle persiane socchiuse li intravedo a malapena.
Sono i padroni di casa.
Sono bianchi come cadaveri. Magri che gli vedo le ossa sotto pelle.
Respirano a fatica. Sono legati a letto da quelli che potrebbero sembrare rovi spinosi. Per un secondo, uno stupido secondo, me ne resto lì, i piedi bagnati, l'arpione in mano, due quasi cadaveri sul letto e l'unica cosa che riesco a pensare è alla Bella Addormentata. Sorrido. Poi dici da dove vengono fuori certe storie...


Si tratta di un'infestazione di ararodecnisa. Fa il nido sotto i letti. Cresce lentamente, molto lentamente. Prima si accontenta dei sogni che cadono dai cuscini. Poi le sue appendici spinate si intrufolano tra le lenzuola, da sotto il materasso e cominciano a strappare i sogni ai dormienti. Chi si addormenta su un letto infestato si sveglia sempre stanco. Non ricorda mai i sogni della notte precedente e soprattutto comincia a deperire. Quando il mostrincubo è cresciuto abbastanza, il padrone del letto non ha più la forza di alzarsi. Continua a dormire, catatonico, mentre i suoi sogni servono a far crescere e rafforzare il parassita. A forza di dormire e non riposare ci si scorda di mangiare, di bere. E piano piano ci si consuma fino a morire.


Non so da quanto tempo questi due sono bloccati qua dentro. Dall'odore e dal loro aspetto è sicuramente troppo. Mi sdraio sul pavimento e striscio carponi sotto al letto. Le zampe dell'incubo mi sfiorano ma non sto dormendo e non trovano niente da rubarmi. Laggiù, sotto la testata, c'è una specie di rosa di carne, vagamente luminescente, da cui partono zampe aracnoidi spinate. Sto distesa sulla schiena, allungo l'arpione e comincio a potarla. Non posso ucciderla subito, lo shock potrebbe essere fatale per i due sopra di me. Ogni colpo che affondo recide una zampa dell'incubo. Ci metto più di un'ora ma più vado avanti più il respiro dei due padroni di casa si normalizza. A un certo punto, li sento girarsi sopra di me. Il letto cigola. Un grugnito e un russare regolare accompagnano il loro sonno.
Era ora, ho la schiena a pezzi a forza di stare sdraiata sul pavimento umido. Affondo l'arpione e il mostro si dissolve in un'odore acre, come di calzini bagnati.


Mi rimetto in piedi. I padroni di casa dormono sereni e finalmente riposano. Domani avranno una fame da lupi, poco ma sicuro. Io faccio la strada a ritroso, ritorno alla finestra che era spalancata. Fuori ha smesso di piovere. Esco da dove sono entrata, accosto da fuori la finestra e le persiane.


Quella stanza da letto puzzava da morire. Faccio un bel respiro.
E starnutisco con forza.
E starnutisco per tutta la strada verso casa.
E starnutisco anche mentre mi faccio una tazza di tè caldo.
E starnutisco anche mentre mi infilo sotto le coperte.
A me e quando me ne vado in giro scalza sotto i temporali...





PS: Scusateci, ma il blog lunedì prossimo va in vacanza, che la consegna del libro si avvicina e dobbiamo un po' correre. Ci rivediamo il 20!
Giovanni & Federico